Whisky, un sapore antico che si rinnova ogni giorno
“Un sapore antico che si rinnova ogni giorno”. Così Mauro Bonutti ha intitolato la serata di degustazione e scoperta del mondo del whisky organizzata da ANAG Friuli Venezia Giulia per i suoi soci e degustatori.
Mauro, ci ha fatto viaggiare con curiosità e interessanti assaggi nel mondo del Whisky o, meglio, dei Whisky, guidandoci in una bellissima serata tra Scozia, Stati Uniti, Giappone ed India.
Il Whisky è una bevanda spiritosa ottenuta dalla distillazione di un mosto fermentato composto da orzo e altri cereali in percentuale variabile, maltati e non maltati, che viene successivamente invecchiata in botti di legno.
La maltazione è una germinazione controllata del cereale, che lo rende adatto ad essere trasformato in un mosto fermentabile dai lieviti (Saccaromyces cerevisiae), per produrre principalmente birra o, appunto, whisky.
Irlanda e Scozia si contendono la primogenitura della bevanda della nostra serata.
Sarebbe stato il patrono nazionale irlandese San Patrizio (385-461) ad introdurre nella sua terra la nobile arte della distillazione, appresa in Medio Oriente durante la sua missione evangelica.
D’altro canto, a far propendere per l’origine scozzese ci sarebbe un documento ufficiale, il più antico relativo alla questione: una registrazione del 1494 dell’ordine effettuato dal frate John Corr di una certa quantità di cereali per produrre l’Uisge beatha, ossia “l’acqua di vita”, nome gaelico di quello che secoli dopo diverrà il whisky.
Oggi se ne distinguono diverse varianti: il processo di produzione è sempre lo stesso, ma il prodotto finale cambia a seconda dell’acqua usata, del clima locale e persino del legno della botte in cui il distillato matura.
Cinque sono state le tipologie proposte da Mauro per la serata.
Il primo è stato un SINGLE MALT SCOTCH WHISKY. Il disciplinare definisce che il prodotto deve essere distillato in Scozia, in alambicchi discontinui, utilizzando solo acqua, malto d’orzo (non è definito però che deve essere esclusivamente di origine scozzese) e lievito, a meno di 94,8° alcol; maturato solo in botti di rovere di capienza massima di 700 litri. La maturazione, per disciplinare, deve avvenire in Scozia per minimo 3 anni e deve avere una gradazione alcolica minima di 40°.
Sono diverse le regioni in Scozia dove si concentrano distillerie e stili di Scotch Whisky differenti: Island, Speyside, Highland, Lowland, Islay e Campbeltown.
Speyside è la zona di maggior concentrazione di distillerie (circa la metà sono qui), nate nei primi anni di diffusione delle stesse in quest’area sul fiume Spey, ricca di vallate, dove potersi nascondere per produrre la bevanda e sfuggire così al fisco.
È qui che nasce il nostro primo assaggio: Benromach 10 Years Old.
“Un grande classico per partire dalle ‘radici’”.
È il whisky classico, il tradizionale Single Malt Scotch Whisky, come veniva prodotto fino ad una cinquantina di anni fa. 43° alcol, inizialmente maturato in botti ex-sherry e bourbon, viene poi trasferito per la maturazione finale in botti di rovere europea che hanno contenuto in precedenza sherry Oloroso.
Si presenta di un bel colore ambrato. Al naso regala subito spiccate note di fumo tipiche della torbatura alle quali si susseguono una complessità di aromi fini ed eleganti con i quali le note affumicate si amalgamano: cuoio, caramello, carruba, sentori agrumati di buccia di arancia, legno, tabacco, mandorle e noci. Un’intensità positiva elevata che si attenua all’assaggio e regala sensazioni calde e avvolgenti.
La degustazione prosegue con un altro whisky scozzese proveniente, però, da un’altra regione: Bruichladdich Islay Barley 2011.
“La ‘modernità’ del 100% locale”. Islay è la regione d’elezione per i whisky torbati, tra cui questo prodotto fa però eccezione. Qui l’importanza per il terroir e il concetto di ‘locale’ è molto sentito, tant’è che sull’etichetta di questo whisky vengono riportate le zone di provenienza della materia prima (cioè dei cereali impiegati per produrlo). Questo magnifico whisky è un Single Malt prodotto, infatti, esclusivamente utilizzando orzo cresciuto nelle aziende agricole partner che si trovano a Islay. Questo Scotch Whisky possiede l’intero dna scozzese di Islay, il terroir è particolarmente presente sia all’olfatto che al palato; la distillazione è del 2011 e il suo invecchiamento di 6 anni è avvenuto per un 75% in botti utilizzate precedentemente per la produzione di bourbon e il restante in botti di rovere europeo utilizzate per la maturazione di vino passito austriaco. Ad affinamento concluso le due parti vengono unite e imbottigliate senza coloranti a 50° alcol.
Tra un assaggio e l’altro Mauro ci spiega che il whisky è “prodotto” da un 10% di cereali, 15% di acqua e il resto è dato dal legno e dal tempo. Il tempo è un fattore estremamente determinante sia in senso materiale (in termini di anni di maturazione e affinamento) sia in termini di clima e di luogo in cui il prodotto viene fatto invecchiare, cioè esattamente il terroir che nella zona di Islay è tanto caro ai distillatori.
Il secondo whisky in degustazione è estrema espressione di questo carattere: invecchiato in riva al mare (Islay è un’isola) regala note marine e salmastre immediate sia al naso che al palato, alle quali si affiancano freschi sentori balsamici, di frutta fresca matura, note di albicocca, di limone e miele. La nota salata invade la bocca al primo sorso, ma nonostante i 50° alcolici non si presenta per nulla bruciante. Il retrolfatto arricchisce il naso di sentori floreali, note balsamiche delicate che si ripresentano e si esprime il cereale, l’orzo. Evanescente, ma restano persistenti i profumi fruttati donando estrema piacevolezza.
Agli inizi del Seicento l’Europa non era al suo massimo splendore; carestie e repressioni portarono molti suoi cittadini ad emigrare in altri paesi e il Nuovo Mondo veniva visto come il miglior approdo, un posto ricco di possibilità. Tra i migranti erano presenti anche scozzesi e irlandesi che, oltre ai loro bagagli, si portarono dietro anche i preziosi alambicchi e l’abilità nella distillazione.
Inizialmente si stabilirono sulla costa orientale ma, diversamente dall’Europa, gli Stati Uniti non erano ricchi di orzo e i nuovi coloni si adattarono a coltivare segale e mais.
Nel 1771 erano già diversi i produttori di whiskey (con una “e” in più rispetto alla “versione” scozzese, ma a somiglianza di quella irlandese), anche se non a livello industriale, tanto che il governo federale decise di tassare i distillati; i distillatori della Pennsylvania risposero al governo facendo strage degli agenti federali, facendo passare alla storia questo fatto come la “rivolta del whiskey”; solo grazie all’intervento di George Washington si riuscì a stabilire l’ordine negoziando con i rivoltosi.
Il secolo a seguire vide l’emergere di distillerie e tecniche di distillazione a “stampo americano”, caratterizzando e personalizzando così il prodotto che si distingueva da quello scozzese importato e affossando principalmente i produttori irlandesi. Un emergere e scomparire continuo che vedeva anni di luce e successo per il whiskey, intervallati da anni di contrabbando e di crisi delle distillerie, fino al 17 gennaio del 1920 quando divenne operativo il XVIII emendamento che sanciva il Proibizionismo. Ma se da una parte le distillerie venivano smantellate, dall’altra si favorì lo sviluppo di una vera industria sommersa, inondando gli Stati Uniti di alcol illegale sia prodotto internamente che proveniente principalmente dalla Scozia, passando per il Canada.
Anche con la fine del Proibizionismo molte delle vecchie distillerie non riaprirono, ma l’industria americana del whiskey iniziò un lento consolidamento.
Tre sono le principali tipologie di whiskey americano: il BOURBON, il TENNESSE e il RYE. Tutti e tre sono distillati di mais e segale ma, mentre nei primi due il mais è il cereale predominante (51%), nel Rye le proporzioni sono invertite e la segale si trova in maggiori concentrazioni (51%).
Ed è stata proprio quest’ultima tipologia il nostro terzo assaggio: Cedar Ridge Rye Whiskey (43° alcol).
“Il nuovo craft distilling di oltreoceano al recupero delle vecchie tradizioni” l’ha definito Mauro.
Una produzione artigianale quindi, in piccole quantità (con le bottiglie numerate), distillato con alambicchi a colonna, maturato in botti di rovere nuovo che gli conferiscono un colore ambrato intenso.
Regala sensazioni fresche; l’uso della segale regala aromi speziati mentre i componenti dolci del mais li bilanciano perfettamente. Si presenta secco e agrumato, con ricordi di chinotto, vaniglia, pepe verde, anice stellato, rosa essiccata, miele e note fruttate di banana e ananas tra qui emerge protagonista proprio la segale. Molto delicato, presenta un’intensità positiva non troppo elevata. Sapido all’assaggio, con una buona persistenza speziata e agrumata (ritorna il chinotto tra i sentori); aromi di vaniglia e miele addolciscono il retrolfatto che risulta così molto più affascinante delle sensazioni donate al naso. Non mancano ricordi balsamici di legno di pino che lo rendono un prodotto estremamente intrigante ed interessante (ed il mio preferito della serata!).
Dagli Stati Uniti proseguiamo il nostro viaggio fino al Giappone, dove il whisky arrivò dalla Scozia per mano degli americani. Nel 1923 Masataka Taketsuru, chimico ed imprenditore giapponese, dopo un periodo di studio in Scozia, fonda dapprima la prima distilleria in Giappone nel 1923, la Yamazaki, per poi fondare, anni più tardi, una delle distillerie più famose e premiate del suo Paese: la Nikka.
La smania di perfezionismo giapponese, ma senza l’arte creativa indipendente, fece nascere da subito prodotti copia-incolla di quelli scozzesi, ma, nella loro filosofia, migliorati all’ennesima potenza, ottenendo così prodotti talmente perfetti che peccano spesso, però, di anima e personalità. Whisky realizzati per lo più da magnati giapponesi che comprano distillerie in Scozia e ne miscelano i prodotti migliori per creare il “loro” distillato perfetto.
Solo da pochi mesi è stato, finalmente, approvato un disciplinare che va a definire il “Japanese Whiskey”, 100% giapponese dalla materia prima alla bottiglia.
Mauro ci ha proposto il Hatozaki Pure Malt Japanese Blended Whisky (46° alcol).
“L’allievo giapponese imita il maestro scozzese aggiungendo la tradizione”.
Invecchiato in tre differenti botti: ex bourbon, ex sherry e barriques prodotte con il pregiato legno Mizunara, quercia tipica giapponese che apporta sentori esotici e speziati.
Il colore tenue un po’ ci sorprende. Delicato al naso, sembra più un sakè che un whisky; regala principalmente note floreali. In bocca si presenta pulito e setoso, nonostante l’alcol predomini sulla delicatezza degli aromi; morbido in entrata con una persistenza non elevata, regala note di zenzero e wasabi al retrolfatto. Un whisky atipico, che intriga e sorprende, ideale nell’accompagnamento con i sushi.
L’ultimo assaggio ci porta alla scoperta dei Nuovi Mondi del distillato protagonista della nostra serata. Finiamo in India, maggior consumatore mondiale di whisky, produttrice di grandi quantità di whisky industriali che di whisky hanno però, purtroppo, solo il nome.
“Per essere ‘world’ in un mondo moderno si recupera la Scozia sotto l’Himalaya”: Amrut Indian Fusion Single Malt Whisky e il whisky indiano che ci fa conoscere Mauro; non il classico prodotto a basso costo da melassa, ma prodotto da orzo maltato indiano (80%) miscelato con quello scozzese (20%), distillati separatamente e uniti in botti di rovere americano ex bourbon, viene poi imbottigliato a 50° alcol. Dal colore ambrato carico, presenta al naso una buona intensità positiva, presentandosi complesso e ben bilanciato tra spiccate note fruttate (frutta fresca: mela, albiccocca, mango in particolare; buccia di arancia essiccata), speziate (caffè), vanigliate e un filo di aroma di torba che si accompagna a tutte le altre. All’assaggio regala sensazioni tattili morbide. Molto armonico tra le note dolci e quelle amare. Lascia un palato fresco e sensazioni molto piacevoli.
La serata si conclude con un’osservazione interessante di Mauro sulla Angels’ share, la quota degli angeli, cioè la quantità di whisky (acqua + etanolo) che evapora dalle botti in legno durante la maturazione. Il legno risente notevolmente del microclima presente nel deposito di maturazione dove si conservano le botti che, molto spesso, dipende dal clima della zona in cui ci si trova. Il magazzino e la sua ubicazione rivestono, di conseguenza, una notevole importanza per la perdita volumetrica e la velocità di maturazione che dipendono essenzialmente da temperatura e umidità: a temperature elevate il distillato si espande, estraendo i sapori del legno in modo relativamente rapido, in presenza di umidità invece il liquido tende ad evaporare di meno e a mantenere il suo volume, ma perde in gradazione alcolica; il contrario ovviamente avviene in ambienti/climi secchi. Facendo due riflessioni, non si sta molto a dedurre che il clima e le temperature scozzesi sono le migliori, per una perdita minore ed un distillato di elevata qualità. Non per niente la storia del whisky partì, come detto all’inizio, proprio da qui.